Articolo pubblicato su Vita
Che fine hanno fatto i community manager? Nell’ultimo decennio, grandi fondazioni hanno richiesto e incentivato la loro presenza, prestigiose scuole hanno offerto corsi di formazione e numerosi professionisti hanno investito nella costruzione di una nuova identità professionale. Con la chiusura dei progetti finanziati, quale sarà il destino di queste figure professionali?
È una domanda che emerge anche dalla lettura di un interessante report pubblicato da Social Seed su “Le nuove figure professionali nel welfare di comunità”. Una risposta passa dalla transizione dalla figura professionale del community manager alla funzione del community management, con due conseguenze principali: innanzitutto, la funzione viene svolta da figure professionali già presenti nelle organizzazioni, che quindi ridefiniscono il proprio ruolo ampliando le competenze esercitate; in secondo luogo, la funzione viene esercitata da un team e non da una singola persona. In questo modo, il community management entra nelle funzioni ordinarie delle organizzazioni del terzo settore, ma al tempo stesso perde gli elementi di maggiore innovazione e
specificità. Anche nel privato si sta assistendo a un cambiamento rilevante: il community manager, inizialmente inteso semplicemente come la figura incaricata di gestire la comunicazione attraverso i social media, in alcune aziende sta assumendo un ruolo più strategico. Nella “community economy” – come illustrato da Marta Mainieri nel suo ultimo libro – la comunità è il perno
attraverso cui ripensare processi e strategie aziendali e il community manager è un business designer.
È questa la differenza più rilevante rispetto al terzo settore ed è da qui che potrebbe ripartire una riflessione sul ruolo delle comunità per associazioni, cooperative e imprese sociali, che guardi anche alla loro dimensione economica e non solo a quella sociale. Di certo, sarebbe utile pensarci prima di archiviare l’esperienza dei community manager.